A dicembre di qualche anno fa ho avuto problemi per via di alcuni calcoli renali. Diverse settimane dopo, dimenticandomene completamente, ho iniziato ad avvertire dei fastidi nella zona pelvica spesso in concomitanza col bisogno di andare in bagno.
Vivo su un’isola, mentre la mia ginecologa di fiducia lavora in una clinica sulla terraferma; dal momento che il fastidio si era tramutato in dolore e stava iniziando a gravare sulla mia quotidianità, decido di prendere appuntamento al consultorio di un ospedale a me vicino.
La visita si è trasformata in pochissimo tempo in un’esperienza traumatica: il ginecologo sembrava non molto contento di dovermi visitare.
Inizia subito una pesante e duratura paternale sulla mia vagina depilata: «se la peluria c’è, un motivo ci sarà, signorina», dopodiché introduce lo speculum. Non essendo assolutamente a mio agio, il dolore era forte, lo faccio presente e mi viene risposto che «lo fanno tutte da sempre, sopravvivrà anche lei».
A quel punto mi viene chiesto se avessi una «vita sessuale attiva», domanda che mi lascia perplessa: mi sarei aspettata una domanda sulle precauzioni ma, essendo ignorante in materia, decido di sorvolare. Continua la visita e il dottore seriamente preoccupato sostiene che io fossi affetta da vulvodinia causata dalla barbara depilazione e dalla mia vita sessuale evidentemente troppo attiva. Mi consiglia di non depilarmi più e di «fare lo sforzo di stare a riposo, il suo fidanzato senz’altro capirà e veda di capirlo anche lei».
Successivamente, mi chiede se assumessi anticoncezionali e rispondo di sì, prendo la pillola che mi aiuta per i dolori mestruali. Da questo momento il dottore decide di adirarsi pesantemente, affermando che i dolori sarebbero spariti dopo l’insorgere di una gravidanza, e aggiunge: «A 30 anni mi sembrerebbe anche giunta l’ora!».
Sconvolta in seguito a questa visita, chiamai la mia ginecologa, presi appuntamento per la settimana successiva: in realtà avevo qualche residuo di renella a causa dei calcoli delle settimane precedenti.