L’importante era “rin-chiuderle”. In convento, in casa e, se proprio si doveva, anche in manicomio, pur di tenerle sotto controllo, queste donne pericolose fin dal principio dei secoli. Del resto, si sa che, secondo una certa mentalità patriarcale, sono esseri mentalmente inferiori, fragili, insicure. Per ovviare al rischio di potenziali trasgressioni, il loro posto era limitato al ristretto nucleo familiare. Questo pensiero, nel XIX secolo e nei primi decenni del XX, consentì l’entrata di molte donne accusate di devianze in manicomi, che dovevano essere luoghi di cura ma che, troppo spesso, si trasformavano in spazi di segregazione utili ad allontanarle dal contesto sociale.
A metà ‘800, a scopo di emarginare le donne, ci si servì delle teorie di Cesare Lombroso e Guglielmo Ferrero, che strumentalizzavano le differenze fisiche maschili-femminili per validare ipotesi come l’inferiorità intellettiva della donna rispetto all’uomo, o che classificavano le donne sessualmente libere come criminali (da La donna delinquente: la prostituta e la donna normale). Questa linea di oppressione continuò fino ai primi del ‘900 con l’art. 1 della legge 14/2/1904 n. 34 che affermava che dovevano essere rinchiuse le persone «quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo», e si amplificò nel periodo fascista. La decisione di internamento poteva essere presa da un qualunque componente della famiglia o su consiglio medico. I motivi potevano essere svariati: includevano vittime di un trauma, di un abuso sessuale, ma anche donne con comportamenti ritenuti non moralmente accettabili. Fino al 1968 in Italia l’adulterio era un reato e motivo sufficiente per finire rinchiuse.
Molte scrittrici hanno parlato della loro esperienza in manicomio facendone uno dei punti di forza della loro opera letteraria. Tra le tante, come non citare Alda Merini che racconta: «Ero un poeta, mi riempivo di parole, aspettavo che qualcosa di bello avvenisse sempre. […] Non sapevo cosa fosse un manicomio prima di varcare quella soglia, non ne avevo mai visto uno. Le sbarre alle finestre, puzza di piscio ovunque. Erano tutti urla e strepiti». Da questa esperienza scaturiranno molte sue poesie. «Fummo lavati e sepolti,/odoravamo di incenso./E, dopo, quando amavamo,/ci facevano gli elettrochoc/perché, dicevano, un pazzo/non può amare nessuno», scrive nella poesia La terra santa del 1984.
Anche la catanese Goliarda Sapienza, sofferente di depressione, sarà internata dopo l’ingestione di numerosi sonniferi – atto interpretato come un tentato suicidio – che la faranno entrare in coma. Gli elettroshock a cui verrà sottoposta le causeranno importanti perdite di memoria. Verrà dimessa ma sottoposta a terapia psicoanalitica che lei racconterà nel romanzo Filo di mezzogiorno.
Adultere, lesbiche, prostitute, donne irrequiete o emancipate, ragazze madri. Queste le presunte anomalie della femminilità che conducevano all’internamento (e di cui ad oggi ci si serve anche nelle carceri). Oggi molti di quegli istituti sono diventati musei e raccontano la triste storia di migliaia di donne. Al presente, la ricerca psichiatrica ha fortunatamente compiuto passi da gigante riconoscendo l’assoluta mancanza di basi scientifiche delle vecchie teorie. Inoltre, oggi viene riconosciuto l’enorme ruolo compiuto da agenti culturali e sociali (es. stereotipi di genere, ruoli multipli, discriminazione e violenza di genere, ecc.) nei disturbi psichici della donna. Ma dopotutto, in una società in cui la donna viene quotidianamente etichettata come “isterica” c’è ancora molto da lavorare, non credete?