“Questa non è mia figlia, questa non può essere la mia Antonia.” Quelle carte aperte un po’ febbrilmente, un po’ con timore. Quella donna che le si svelava attraverso parole che sembravano scritte da un’anima ardente, sensuale, ricca di desideri di cui non aveva voluto, e non voleva vedere, la drammatica profondità era lì, senza più veli, davanti a lui.
In realtà non sapremo mai cosa il notissimo avvocato milanese Roberto Pozzi pensò entrando nella camera di Antonia dopo il suo suicidio e leggendo le sue carte. La mamma, la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a Bereguardo, chiusa nel dolore per la tragica perdita di quell’unica e amatissima figlia, non entrerà più in quella camera-studio del piccolo paese di Pasturo, nella provincia di Lecco dove la famiglia aveva acquistato una grande villa, in cui Antonia si rifugiava a scrivere per ore ed ore. Sarà papà Roberto a leggere quelle migliaia di scritti tra poesie, lettere diari forse cercando la risposta a quel gesto compiuto la mattina del 2 dicembre 1938. Non accetterà la figlia che quelle carte gli rivelano e tenterà di alterarne il senso, tagliando, eliminando, forse distruggendo parte di quel prezioso materiale nel tentativo di restituirne un’immagine pubblica che corrispondesse a quella che la società del tempo, e forse non solo, si aspettava che fosse.
Antonia muore per suicidio a 27 anni. La sua è una famiglia della ricca borghesia milanese. Studia nelle migliori scuole, è una ragazza che ama lo sport, la letteratura, la fotografia, i viaggi. Ama in particolare la montagna a cui dedica molte poesie e foto. E il padre non le fa mancare niente. Durante l’università, quando è difficile reperire molti libri, è lei che, grazie alle sue possibilità economiche, acquista testi che poi passa a quel gruppo di ragazzi-amici tra cui Dino Formaggio, Alberto Mondadori, Vittorio Sereni che si raccolgono intorno al noto professore Banfi le cui idee li appassionano.
Ma lei si vergogna di quella ricchezza. L’autista che l’accompagna a scuola, la splendida casa, la sua situazione economica sembrano crearle disagio invece che inorgoglirla. È consapevole della sua diversità, soprattutto in confronto a quel suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, che conosce mentre frequenta il liceo classico milanese “Alessandro Manzoni.” Dietro l’evidente povertà lei scopre, però, la profonda ricchezza d’animo di un uomo carismatico che sa coinvolgere i suoi alunni con la passione per la cultura, e se ne innamora. Certo, ha solo diciassette anni e potrebbe trattarsi di un vento passeggero, ma non sarà così. Troppe cose li uniscono. Antonia va oltre la serietà e severità del docente. Ne percepisce le affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene. E poi c’è quel dolore che gli legge negli occhi che glielo rendono diverso da tutti gli altri. Banalmente potremmo dire che nasce un amore. Prima rifiutato da Antonio consapevole delle differenze di età e di condizione economica. Poi condiviso, con tutto quello che un amore di questo tipo, in quella situazione, comporta: ostilità della famiglia, allontanamento della giovane con un viaggio che la porterà in giro per l’Europa “per dimenticare”. Del resto se lo può permettere. E mentre lettere consolatorie arrivano nella ricca casa milanese, parole di sconforto per l’impossibilità di vivere quell’amore sono quelle che Antonia scrive nel suo diario o nelle sue poesie.
Nonostante le ostilità Antonia non dubita che verrà un giorno in cui quell’amore potrà essere pienamente vissuto e scrive.
Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurità.
Una fiducia che presto si scontrerà con una realtà che la costringerà a cedere alla volontà paterna con infinito dolore.
La vita sognata
Chi mi parla non sa
che io ho vissuto un’altra vita
come chi dica
una fiaba
o una parabola santa
perché tu eri
la purità mia,
tu, cui un’onda bianca
di tristezza cadeva sul volto
se ti chiamavo con labbra impure,
tu cui lacrime dolci
correvano nel profondo degli occhi
se guardavano in alto –
e così ti parevo bella.
O velo,
tu – della mia giovinezza,
mia veste chiara,
verità svanita –
o nodo
lucente – di tutta una vita
che fu sognata – forse –
oh, per averti sognata,
mia vita cara,
benedico i giorni che restano –
il ramo morto di tutti i giorni che restano,
che servono per piangere te.
La vita sognata è la prima delle dieci poesie, unite in una piccola raccolta, scritte nel 1933, un anno che scavò un solco indelebile nello spirito e nella vita di Antonia Pozzi per la rinuncia definitiva, dopo l’interruzione impostale dal padre nel 1932, al sogno d’amore con Antonio Maria Cervi.
Antonia ha ventidue anni, è nata il 13 febbraio del 1912, quando cede davanti ad una volontà paterna a cui non ha la forza di contrapporsi e torna, apparentemente, ad essere quella “brava” figlia che tutti si aspettano. L’università e la laurea segnano anni di ricerca di una vita semplice. Il tentativo di farsi accettare, qualche amore saffico l’incontro con l’affascinante Remo Cantoni pieno di donne con cui ha forse una breve avventura, e poi l’avvicinarsi sempre più a quel mondo di povertà che affligge tante aree della periferia milanese insieme a Dino Formaggio per cui prova una grande ammirazione. Di umili origini, Dino, fa sacrifici enormi per potersi permettere di studiare. Sente in lui la forza di volontà, il coraggio che a lei piccola borghese di ricca famiglia che ha potuto avere tutto il meglio per la sua formazione personale e culturale forse manca. Sogna con lui una vita in comune proprio nel segno di quella semplicità e questa volta, nonostante la differenza sociale, il padre non ostacolerebbe questa relazione. In fondo anche lui si è fatto dal niente e quel Dino promette bene.
Ma, anche questa volta, il sogno si infrange davanti alla realtà. Per Dino lei è solo un’amica e niente di più.
Ma non ci sono solo i sogni d’amore infranti. Intorno a lei il mondo sembra impazzito. Molti dei suoi amici, tra cui i fratelli Treves, sono costretti a fuggire per sottrarsi alle leggi razziali. Suo padre è parte di quel sistema. A Pasturo è il podestà.
La sera del 1° dicembre del 1937, Antonia sembra felice. Insieme ad alcuni amici ha assistito a un concerto della Società del Quartetto, accordandosi per passare i futuri giorni di Sant’Ambrogio in montagna o a Camogli. All’uscita però appare confusa e rifiuta di tornare in auto.
La mattina del 2 dicembre 1938 si reca nella scuola dove insegna, l’Istituto tecnico Schiaparelli, e chiede un permesso per uscire prima. È una mattina molto fredda, prende la bicicletta e va verso l’Abbazia di Chiaravalle, dove tante volte è stata con Dino. La campagna è coperta di neve, a quell’ora è tutto silenzio e pace. Si sdraia sulla neve dopo aver ingoiato un barattolo di pasticche. La trovano il giorno dopo, ancora viva ma morirà poche ore dopo a causa di una polmonite acuta causata dal freddo. A quella polmonite la famiglia si aggrapperà per giustificarne la morte.
Il tentativo di addomesticare gli scritti di Antonia fatti dal padre, e forse da qualcun altro, non funzionano. Il suo grido di libertà, la sua ribellione, la sua volontà di donna sono lì, in quelle pagine anche se epurate di qualche parte. Emergono con forza, con incredibile purezza a chiedere che questo non avvenga più. Che una donna non sia costretta a togliersi la vita per avere diritto a vivere “La vita sognata.”