La violenza, come strumento di controllo e dominio, è stata storicamente una delle radici principali dei sistemi educativi, specialmente quelli figli di un sistema patriarcale.
Sin dalle sue origini, l’educazione è stata un meccanismo di potere, un modo per consolidare l’autorità e trasmettere modelli sociali che favorivano l’assoggettamento, soprattutto delle donne e delle minoranze. Come sottolinea bell hooks in Feminism is for everybody, l’educazione patriarcale ha spesso alimentato una cultura della violenza, trasformando la “paura” in uno strumento di conformismo.
Questa violenza si manifesta non solo nei modelli tradizionali di disciplina fisica, ma anche in forme più sottili di controllo psicologico ed emotivo. In un contesto educativo che non prende in considerazione le istanze femministe e di genere, la pedagogia continua a perpetuare un approccio che non valorizza le emozioni, la vulnerabilità o la cooperazione. Così, la violenza si radica nel nostro modo di pensare e di educare, e si trasforma in una pratica sistematica che si ripercuote su tutti i soggetti coinvolti nel processo educativo: dagli insegnanti agli studenti, fino alle famiglie.
Come osserva Cavadi nel suo studio Educare diversa/mente, la pedagogia tradizionale, che non tiene conto delle differenze di genere, classe e cultura, continua a promuovere un modello educativo autoritario e competitivo. Questo modello rinforza il concetto di potere e di autorità come qualcosa di immutabile, legittimando la violenza come forma di controllo. La scuola, in quanto istituzione, diventa quindi un luogo dove le differenze non vengono accolte, ma piuttosto ignorate o negate. In un tale ambiente, gli studenti che non si adattano ai canoni imposti rischiano di essere emarginati o vittimizzati, e la violenza, sia fisica che psicologica, diventa una risposta alla disobbedienza o alla “devianza”.
Il problema diventa ancor più urgente quando si considera come la violenza si esprima nelle dinamiche quotidiane all’interno delle scuole: la pedagogia non femminista non solo fallisce nel promuovere il rispetto e l’uguaglianza, ma alimenta anche una cultura di prevaricazione e sottomissione. In questo contesto, i comportamenti violenti tra gli studenti, come il bullismo, l’esclusione e la discriminazione, si manifestano quotidianamente. Come sottolinea Giannantonio in Paura di sentire, la difficoltà di gestire le emozioni e la paura di affrontare il conflitto emotivo contribuiscono ulteriormente a questo clima di violenza. La paura di essere vulnerabili e l’incapacità di confrontarsi con la diversità emotiva sono fenomeni che segnano negativamente il processo educativo e il benessere degli studenti.
In questo scenario, è essenziale capovolgere la relazione viscerale che abbiamo con la violenza e il potere. Non si tratta solo di eliminare la violenza fisica, ma di intraprendere un cambiamento profondo nelle strutture educative e sociali che la giustificano. Un passo fondamentale è adottare una pedagogia che, come propone Bell Hooks, metta al centro l’empatia, l’ascolto e la cura. Educare attraverso il rispetto delle emozioni e della diversità è il primo passo per costruire una scuola che promuova il dialogo, il rispetto reciproco e l’inclusione.
Per superare questa visione violenta del potere, ogni attore del processo educativo deve imparare a riconoscere i propri comportamenti, dargli significato e comprenderli per trasformarli in pratiche di empowerment collettivo. In questo processo, l’educazione diventa IL terreno fertile per il cambiamento sociale, dove la violenza non ha più spazio e il potere è ridiscusso e redistribuito in modo equo.
In conclusione, solo attraverso una pedagogia che non abbia paura di mettere in discussione il sistema patriarcale e le sue logiche di violenza, da una rivoluzione silenziosa che parta dai banchi di scuola, potremo costruire un futuro in cui l’educazione non sia più un terreno di lotta e prevaricazione, ma di crescita e liberazione per tuttə.
Se davvero vogliamo una pedagogia femminista, dobbiamo partire anche da quello che Marcello D’Orta scrive in Io speriamo che me la cavo: «E allora, se tu vuoi cambiare qualcosa, non pensare che non ci sia nulla da fare, perché c’è sempre qualcosa da fare».
Bibliografia: