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Il Codice rosso... e poi?

Storie di chi ce l’ha fatta.

Quando mi è stato chiesto di scrivere qualcosa in materia di violenza sulle donne, ho pensato subito che fosse giusto raccontare anche quello che succede dopo che vi è stata una denuncia per maltrattamenti e quello che vivono le vittime.

Correttamente e giustamente si parla di educazione, di prevenzione, ma spesso e volentieri quasi ci si scorda di chi ha rischiato di essere l’ennesima vittima di un femminicidio.

Avete mai pensato a cosa provano, come vivono e soprattutto sopravvivono quelle donne che riescono a denunciare in tempo?

Sono un’avvocata e collaboro da anni con un centro antiviolenza. Ho scelto di farlo per un’associazione che non è del luogo in cui vivo. Questo perché ritengo che il mio “anonimato”, per chi si rivolge ad un centro antiviolenza, sia un elemento di conforto. Quelle donne non mi incontrano fuori, a fare la spesa, non incontrano, fuori dal punto di ascolto, gli occhi di chi sa, sentono quel disagio una volta in meno e, così, si sentono più accolte.

Dopo la denuncia, quando vi sono situazioni di grande pericolo, si mette in moto una macchina silenziosa ma complessa. Non c’è tempo da perdere, bisogna trovare un luogo sicuro per la donna. E, allora, immaginate una donna, moglie e spesso madre – perché la maggior parte delle volte chi trova la forza di denunciare è una madre che vuole salvare sé stessa ma soprattutto i propri figli – che si reca in caserma e che improvvisamente si trova sola. Sì, sola. Perché la donna che viene allontanata, in un attimo, come nella storia che vi voglio raccontare, si trova magari con sette figli, con ancora indosso il loro pigiamino, a dover lasciare in caserma il proprio telefono perché non deve più avere contatti con nessuno, a salire su un’auto per recarsi in un luogo sicuro ma sconosciuto, senza poter avvertire nessuno o portare con sé nulla. Non c’è nemmeno il tempo di passare per casa a prendere un minimo di vestiti. Immaginate questo nucleo, spaventato, che viene condotto in un luogo ritenuto sicuro ma al contempo oscuro, immaginate la loro vita che “ricomincia” altrove. I bambini che vanno in una nuova scuola, dove non conoscono nessuno, senza il loro nome scritto sul registro di classe perché non si deve correre alcun rischio, immaginate la recita di Natale… Bisogna accertarsi che i genitori degli altri bimbi non facciano foto o video, perché magari quel video, caricato sui social per far vedere quanto è dolce il proprio figlio, può inavvertitamente inquadrare il bimbo in protezione con il rischio che qualcuno possa riconoscerlo e quindi scoprire dove si trova.

Immaginate due giovani adolescenti che, nate e cresciute in Occidente, sognano come tutti i loro coetanei di poter uscire con i propri amici, di studiare e diventare medica o magistrata. Immaginate come possono sentirsi nell’essere costrette a dover letteralmente scappare senza salutare nessuno per diventare in un attimo un fantasma. La tentazione di contattare i propri amici è tanta e, in alcuni momenti, è insopportabile. Si ha bisogno di gesti che hanno il sapore della normalità, della quotidianità, ma non si può. Pensate alla loro immensa forza d’animo, chi di noi l’avrebbe avuta in piena pubertà quando si ha solo voglia di vivere e di mangiarsi il mondo?!

Mentre scrivo di queste vite, perché per fortuna sono ancora delle vite, mi commuovo per l’ennesima volta. È difficile anche per noi legali sopportare e supportare queste situazioni. Non mi scorderò mai di quando al termine di una delle lunghissime udienze che compongono questi processi emotivamente sfiancanti, la maestra di asilo di uno dei bambini mi ha consegnato i disegni che avevano fatto i suoi piccoli alunni che non avevano potuto salutare il proprio amichetto e che non riuscivano a capire perché non era più andato a scuola.

È incredibile che chi deve essere difeso perché vittima sia il soggetto che invece viene allontanato e che viene fatto soffrire ancora, e di nuovo, e per tanto tempo, perché non può più avere niente della vita precedente, compreso quello che di bello c’era. Sono convinta che le vittime di questi reati non si meritino questo, non si meritano processi dove da parte offesa diventano automaticamente, inesorabilmente e sempre l’imputato, perché nelle aule di giustizia per riabilitare il vero responsabile si cerca di infangare la vittima facendo apparire che quanto accaduto non è vero e che tutto è un pretesto per lasciare il marito, spesso e volentieri per un amante che non è mai esistito. 

E poi occorrono i fondi per sostenere le donne messe in protezione, ma i fondi vengono inesorabilmente tagliati ogni anno di più. Il Codice Rosso prevede che alle donne maltrattate venga erogato un contributo di €400,00 mensili proprio per dare loro la possibilità di riprendere in mano la loro vita, ma questi fondi, io, non li ho mai visti arrivare.

E succede che, prima o poi, le strutture di accoglienza si trovano, loro malgrado, a non poter più sostenere le loro ospiti che, quindi, lontane da tutto e da tutti, comprese quelle persone che avrebbero potuto dare loro una mano, si trovano a rimboccarsi le maniche e, giustamente, si chiedono perché devono essere loro a farlo quando chi le ha costrette a scappare ha ancora una casa, la loro casa, e un lavoro. 

Nella storia che a grandi linee ho voluto raccontare, oggi, la mamma lavora e ricopre un ruolo importante in una multinazionale, le figlie femmine, che secondo il padre/padrone non dovevano studiare proprio perché femmine, invece frequentano l’università grazie ad una borsa di studio ottenuta per merito.

A quel padre/padrone, oggi in carcere perché la condanna per maltrattamenti in famiglia è stata confermata in tutti i gradi di giudizio ed è quindi divenuta definitiva, bisognerebbe far sapere che le “sue” donne ce l’hanno fatta! 



Perché, per fortuna, ci sono anche donne che ce la fanno, di loro non si parla… Mai. Ed invece meritano spazio ed attenzione perché quando non si muore per mano del maltrattante di turno , grazie alla mano del codice rosso, dei centri antiviolenza e di chi ha avuto il coraggio di denunciare, si può rinascere. E allora credo, anzi sono sicura che, anche in nome di chi non ce l’ha fatta, bisognerebbe impegnarsi di più e sostenere veramente chi invece oggi può ancora raccontare la sua storia perché “nessuno si salva da solo”.